Crac dei Comuni, ecco chi è colpevole

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Spese pazze o inutili. Assunzioni a pioggia nelle partecipate. Operazioni finanziarie a rischio. E poi, i tagli dei tasferimenti dallo Stato centrale. Così da Milano a Roma, passando per Parma, le città italiane continuano ad avere i conti in rosso. E spesso per non fallire sono costrette ad aumentare le tasse locali
Roma salvata per il rotto della cuffia, Napoli pure, Milano risanata ma alle prese con un debito di 4 miliardi. Sono queste le notizie che raccontano la crisi delle città italiane. Crisi di bilancio: il Paese dei mille campanili è a rischio default. I Comuni, infatti, per varie ragioni sono alla canna del gas e ai sindaci non resta che mettere a dieta i cittadini, imponendo un taglio dei servizi e l’aumento delle tasse.

I dati parlano chiaro. Dal 2012 a febbraio 2014 sono 105 i sindaci che hanno chiesto alla Corte dei Conti di accedere a un piano di riequilibrio finanziario. Il motivo principale sono i tagli imposti dai vari governi: «Dal 2009 al 2013 i trasferimenti dallo Stato centrale verso i comuni sono diminuiti di circa 31 miliardi, in parte recuperati dagli amministratori attraverso l’aumento delle imposte locali», ha calcolato Raffaele Squitieri, presidente della Corte dei Conti, durante un’audizione alla Camera tenuta lo scorso 21 marzo. Al calo delle risorse si è sommato l’effetto delle spese pazze o inutili di molte città. Motivo per cui nella sua analisi Squitieri non ha fatto sconti: diverse amministrazioni, ha spiegato, hanno utilizzato le società partecipate in maniera scellerata, spingendo sulle assunzioni e favorendo gli amici nei contratti di fornitura. Oppure, altra furbizia diffusa, hanno aumentato i debiti facendo finta di poter contare su crediti in realtà inesigibili.
Il viaggio nei Comuni sull’orlo del crac non può che partire da Parma. Perché qui, in un territorio dove l’industria continua a tirare, le vecchie amministrazioni erano riuscite ad accumulare un debito enorme, nell’ordine di un miliardo di euro. Dopo l’arresto dell’ex sindaco di centrodestra Pietro Vignali, nel gennaio 2013, è emerso via via un quadro di malcostume variopinto. Si va dai politici che non pagavano il biglietto per entrare a teatro fino alle società controllate dal Comune che accumulavano perdite milionarie a causa di gestioni poco trasparenti.

A dispetto della situazione esplosiva ereditata dal passato, Federico Pizzarotti, il primo sindaco grillino di una città di una certa importanza, nominato nel maggio 2012, è riuscito a evitare il crac. Ha chiuso alcune delle società comunali, in altre ha cercato di salvaguardare i posti di lavoro. «A Parma si gira in bicicletta», è stato lo slogan della nuova politica per annunciare l’addio alle auto blu. Ai dipendenti comunali, non senza proteste, è stato tagliato il salario accessorio, mentre le tasse che finiscono al Comune sono schizzate a livelli massimi, così come le rette delle mense scolastiche. Il debito è sceso di 260 milioni.

A dire la verità, la scelta di tirare la cinghia è obbligata, sia che il Comune si salvi per un pelo sia che entri ufficialmente in procedura di dissesto. L’esempio è quello di Alessandria, in Piemonte, la prima città a dichiarare fallimento. Il crac, però, resta una soluzione che si cerca di evitare in ogni modo. Così una delle primissime beghe toccata al governo di Matteo Renzi è stata quella di varare in fretta e in furia un decreto per salvare Roma da un fallimento certo, trasferendo al Comune guidato da Ignazio Marino 570 milioni per garantire l’equilibrio dei bilanci 2013 e 2014.

Quella di Roma, a ben vedere, è una storia quasi irripetibile. «Hanno fatto come l’orchestra del Titanic, continuando a suonare mentre la nave affondava»: così Riccardo Magi, consigliere capitolino dei Radicali, racconta un default che parte da lontano. Nel 2008, pochi mesi dopo l’insediamento dell’allora sindaco Gianni Alemanno, il governo guidato da Silvio Berlusconi nomina un commissario per il debito di Roma Capitale. La Città Eterna resta unica al mondo ma, dal punto di vista dei conti, si sdoppia: «Si è creata una “bad company” che la Corte dei Conti ha definito un unicum giuridico, una città con due bilanci, uno per il debito e uno per la spesa corrente. Così si è evitato di dichiarare il dissesto e nel frattempo non sono state assunte misure correttive», spiega Magi.

All’epoca dei fatti i debiti superavano i 22 miliardi, oggi sono scesi a 14, grazie ai proventi di un fondo da 500 milioni e delle tasse di imbarco dei passeggeri che transitano dagli aeroporti di Ciampino e Fiumicino. Tuttavia al commissariamento del 2008, dice Magi, «non seguì, come era doveroso, una fase di razionalizzazione della macchina amministrativa».

Ora, con il Salva-Roma, l’amministrazione di Marino deve presentare un piano di rientro, che sarà valutato dal governo. Il sindaco – alle prese con un buco che continua ad aumentare, si parla ora di 560 milioni – ha spiegato alla Camera che intende vendere circa 600 immobili; unificare la gestione del trasporto urbano ed extraurbano; bloccare le assunzioni e favorire la mobilità dei dipendenti capitolini. Per non dimenticare la lotta ai venditori di caldarroste: il sindaco ha detto che versano la miseria di tre euro al giorno per l’occupazione di suolo pubblico, quando un cartoccio di castagne ai clienti ne costa cinque.

Pagheranno anche le partecipate: all’ombra del Campidoglio se ne contano circa 26. L’Atac e l’Ama (trasporti e rifiuti), nonostante fossero sull’orlo del fallimento negli anni passati sono state ubriacate di assunzioni senza concorso. Dovranno dimagrire. Nella speranza che non restino incompiute le opere pubbliche: la Metro C, il centro espositivo dell’Eur noto come la Nuvola o la Vela di Santiago Calatrava alla città dello Sport di Tor Vergata, ferma da anni.

Le norme contenute nel Salva-Roma in realtà non riguardano solo la Capitale ma sospendono le procedure esecutive nei confronti dei Comuni in pre-dissesto e «per l’esercizio 2014 gli enti locali che abbiano presentato, nel 2013, piani di riequilibrio finanziario che non sono poi stati approvati dalla Corte dei Conti». Così, insieme a Roma, si è pensato anche di salvare la terza città italiana, Napoli, a cui sono state «temporaneamente sospese le procedure esecutive a carico». Ovvero, se anche il Comune non salda i conti, i creditori non possono chiedere il fallimento.

Questa norma ha consentito di aggirare la sentenza della Corte dei Conti che il 21 febbraio aveva respinto il piano di riequilibrio mettendo la città a rischio dissesto. Un abitante su due non paga i tributi e il Comune di Luigi De Magistris non è in grado di incassare i proventi delle multe stradali, è – in sintesi – il rimprovero mosso dalla Corte dei Conti. Ma a Napoli neppure gli agenti della Polizia locale se la passano bene. «Dal 2002 i vigili urbani non ricevono una dotazione completa della divisa. Ci sono colleghi che non l’hanno proprio e per farsi riconoscere possono usare solo la paletta. Mancano le radiotrasmittenti e i mezzi si reggono in piedi grazie alla volontà dei colleghi che si occupano di manutenzione», racconta Gennaro Martinelli, coordinatore della Polizia Locale per il sindacato Fp-Cgil Campania. Che aggiunge: «In un luogo dove bisognerebbe investire in legalità, la polizia locale è spogliata e l’età media degli agenti è 60 anni».

Tra Comuni già finiti gambe all’aria e altri prossimi a fallire, una menzione speciale tocca alle città grandi e piccole della Calabria. «Dal 1992 ad oggi, è la regione che ha avuto più dissesti. Eppure i Comuni calabresi in difficoltà sono molti più di quelli dichiarati nelle statistiche. Il trucco che permette di rinviare la dichiarazione effettiva di dissesto è quello dei “residui attivi”, ovvero i tributi indicati a bilancio come non ancora incassati. Sono una massa enorme e spesso vengono trasferiti da un anno all’altro senza riscuoterli mai», spiega Claudio Cavaliere di Legautonomie, quantificando in 1,7 miliardi di euro i tributi non riscossi dei Comuni calabresi.

È sbagliato, però, pensare che i Comuni siano in difficoltà solo per la cattiva gestione. Racconta Francesca Balzani, assessore al Bilancio della giunta di Giuliano Pisapia, a Milano: «Bisogna considerare negli ultimi anni a ogni finanziaria tutto veniva rimesso in discussione, come avvenuto anche adesso con la trasformazione della tassa sui rifiuti, da Tares in Tari. La sostanza non cambia ma, a ogni modifica, vanno rifatti i programmi informatici, ridisegnati i sistemi e le scadenze di pagamento, investite altre risorse per rifare la formazione del personale e i programmi informatici». Quando Balzani ha assunto l’incarico, nel marzo 2013, ha trovato un deficit di 500 milioni su un bilancio di 2,5 miliardi. L’ha riportato in pareggio tagliando le spese e aumentando l’addizionale Irpef (ma confermando la soglia di esenzione più alta d’Italia, fino a 21 mila euro di reddito l’anno). Resta elevato il debito, vicino ai 4 miliardi: «Ci costa tutti gli anni oltre 250 milioni di euro fra interessi e ammortamento. Un bel macigno che, però, è collegato agli investimenti che abbiamo fatto per avviare, ad esempio, le nuove linee di metropolitana. Il vero derivato tossico è l’incertezza: nel 2013 fino agli ultimi giorni dell’anno non abbiamo saputo come sarebbe stata chiusa la partita dell’Imu, nonostante tutte le spese correnti fosse stato nel frattempo necessario sostenerle. Come fai a programmare?», si domanda.

Ecco dunque che in tutti i Comuni, risparmiosi o spendaccioni che siano, si tratta sempre di ballare sull’orlo del precipizio, proprio per effetto dei tagli che arrivano dal governo e per la quota delle tasse locali che vengono trasferite al governo. «Il federalismo fiscale è stato tradito e stiamo andando verso un nuovo centralismo con risorse minori», sostiene Fabio Fiorillo, professore di Scienza delle Finanze al Politecnico delle Marche e Assessore al Bilancio del Comune di Ancona, «visto che il risparmio dello Stato è stato scaricato sugli enti locali».

Motivo per cui Piero Fassino, sindaco di Torino e presidente dell’Associazione dei Comuni (Anci) ha chiesto a Renzi di aprire un tavolo in cui si possa discutere l’abolizione del patto di stabilità per le cittadine con meno di cinquemila abitanti. Il patto di stabilità è il provvedimento che limita la capacità di spesa degli enti locali. E, ora, i sindaci non vorrebbero più sentirne parlare.

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