Le spese fuori controllo di regioni, comuni e provincie in 20 anni 600 miliardi in più

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A TANTO AMMONTEREBBE IL RISPARMIO ACCUMULATO DAL 1990 AL 2012 SE GLI ENTI TERRITORIALI AVESSERO AVUTO LO STESSO TASSO DI CRESCITA, SU PERSONALE E ACQUISTO DI BENI E SERVIZI, DELLO STATO CENTRALE. NESSUN OBBLIGO DI UTILIZZARE LA CONSIP
S eicento miliardi di euro, poco meno di un terzo dell’intero debito pubblico. È questo il costo “abnorme” del federalismo all’italiana nell’ultimo ventennio. Un decentramento che si è risolto, per i Comuni, le Provincie e le Regioni, in una fuga verso un’incontrollata spesa per il personale e per l’acquisto di beni e servizi. Tanto infatti si sarebbe risparmiato se gli enti locali, invece che partire per la tangente, avessero aumentato le spese per il loro funzionamento allo stesso modo della pa centrale. I n questi mesi si è assistito a un infinito braccio di ferro sull’Imu tra comuni e governo, che ha creato uno dei più incredibili pasticci legislativi degli ultimi anni. Un puzzle irrisolvibile per i normali cittadini, frastornati da proliferare di nuove e incomprensibili sigle, alcune nate e poi abbandonate, altre rimaste: Tasi, Iuc, Tarsu, Tia, Tares. Una lotta senza quartiere condotta dalle amministrazioni comunali e dai loro rappresentanti dell’Anci con un unico scopo: non perdere gettito rispetto al 2013. Una specie di linea del Piave per evitare – così si sono sempre difesi i Comuni – di incidere sulla spesa viva sociale come gli asili nido, le scuole, i servizi, i trasporti, la pulizia e l’illuminazione delle strade. È vero che in questi ultimi anni non soltanto i Comuni ma tutti gli enti locali, e cioè Regioni e Provincie, hanno dovuto ridurre, oborto collo, le loro spese complessive per rispettare le richieste del governo. C’è
però un dettaglio che i sindaci, i presidenti di regione e di provincie omettono o fanno finta di non conoscere: nel passato sono state proprio le amministrazioni locali le più spendaccione e le meno interessate a un serio controllo dei costi. E ora si portano dietro un’eredità negativa che incide sulla loro sempre più ridotta capacità di spesa per investimenti. Basta guardare all’esplosione della spesa per stipendi e per l’acquisto di beni e servizi nell’ultimo ventennio. Perché di esplosione si tratta: tra il 1990 e il 2012 la spesa delle pubbliche amministrazioni locali è cresciuta, come emerge dalla lettura dei dati Istat (Sintesi dei conti ed aggregati economici delle Amministrazioni pubbliche), del 118 per cento per quanto riguarda gli stipendi, e addirittura del 213 per cento per l’acquisto di beni e servizi, mentre nello stesso periodo l’inflazione cumulata è salita “soltanto” del 63 per cento. Un’incontenibile voglia di spendere, di assumere personale, di aumentare gli stipendi, di acquistare oggetti e servizi. Il caso degli 871 assunti in due anni dalla giunta Alemanno all’Ama, la municipalizzata dei rifiuti di Roma (nonostante i 700 milioni di debiti con le banche), è soltanto la punta di un iceberg di un fenomeno diffuso in tutta Italia. Che ha visto il boom di società controllate o partecipate che ad esempio, nel caso della Regione Lazio, fanno spesso – come si è dimostrato – cose inutili o le stesse cose con strutture diverse. Lo Stato è più virtuoso. Si dirà: così han fatto tutti nei bei tempi della finanza allegra, in cui non c’era né la spending review né la necessità di restringere al massimo i costi di struttura e di funzionamento, liberando risorse per investimenti produttivi. Ma, semplicemente, questo non è vero. La crescita abnorme della spesa di regioni ed enti locali in questi settori è stata molto superiore a quella della pa centrale. Quest’ultima è salita tra il 1990 ed il 2012 del 79 per cento per il personale, pur sempre 16 punti più dell’inflazione, ma ben 40 in meno rispetto al trend degli enti locali. Mentre la spesa dei ministeri per l’acquisto di beni e servizi è cresciuta del 68 per cento, addirittura 145 punti percentuali in meno rispetto a quanto avvenuto in Regioni, Province e Comuni. Se le amministrazioni locali fossero state più parche, più attente ai costi e meno spendaccione, e quindi avessero avuto una crescita dei costi a un tasso pari a quello delle amministrazioni centrali, nel 2012 gli stipendi sarebbero ammontati a 56,7 miliardi invece di 69,2 (ossia 12,5 miliardi in meno). Il costo dei beni e servizi acquistati sarebbe stato di 34,9 miliardi invece di 65,2 (ovvero 30 di meno). Questa differenza di 42 miliardi, che è relativa a un solo anno (il 2012), vale quanto una megamanovra, e non solo ci avrebbe fatto dimenticare gli infiniti balletti sull’Imu, ma ci avrebbe anche consentito di raggiungere l’agognato pareggio di bilancio, tra l’altro richiesto dal nuovo articolo 81 della Costituzione, dimenticato da tutti durante la preparazione della legge di stabilità. Se poi si volesse indagare su quanto si sarebbe risparmiato negli ultimi 22 anni (1990-2012) con una crescita della spesa degli enti locali in linea con quella delle amministrazioni centrali, si scoprirebbe che il risparmio sarebbe stato di ben 250 miliardi per gli stipendi e di 340 per l’acquisto di beni e servizi. Infatti, se la spesa del 1990 delle Pa locali fosse cresciuta nei successivi 22 anni a un tasso costante, pari a quello medio annuo sperimentato dalle amministrazioni centrali (3,6% nel caso della spesa per stipendi, e 3,1% nel caso della spesa per acquisti), si avrebbe che la spesa per stipendi sarebbe stata di 1.015 miliardi, invece di 1.265, e quella per gli acquisti di 640 miliardi, invece di 980. Debito pubblico più alto. In altre parole, l’Italia avrebbe oggi 600 miliardi di euro in meno di debito pubblico su circa 2.000. Seicento miliardi di euro sono, in fondo, il costo abnorme di un “federalismo” che ha avuto un solo, visibile effetto: l’esplosione incontrollata della spesa per stipendi e beni e servizi degli enti locali. Federalismo: una parola di cui si è certo abusato in Italia, e di cui si sono riempiti la bocca gli 8 mila sindaci italiani, il centinaio di presidenti di provincia e la ventina di presidenti regionali, con relativi assessori e consiglieri, mentre venivano allegramente sperperate le risorse pubbliche. Non è neppure vero che il trasferimento di competenze dallo Stato alle Regioni e agli enti locali possa spiegare i maggiori costi delle Pa non statali. Il passaggio di competenze è avvenuto in occasione del decreto legislativo 112/98, attuativo della legge Bassanini 59/97, che prevedeva un trasferimento parziale in materia di sviluppo economico e attività produttive, territorio, ambiente e infrastrutture, servizi alla persona e alla comunità, polizia amministrativa regionale e locale e regime autorizzatorio. Un secondo momento si è avuto con la legge La Loggia, la 131/2003, che dava attuazione alle modifiche costituzionali apportate dalla legge costituzionale 3/2001, che prevedevano maggiori competenze per Regioni ed enti locali. Ma se si va a vedere l’evoluzione del numero di dipendenti tra il 1995 e il 2000, e tra il 2000 ed il 2005, periodi in cui avrebbe dovuto aver luogo il trasferimento di competenze, si vede che la situazione è stata paradossalmente l’opposto di quella che ci si sarebbe aspettati: infatti i dipendenti delle Pa centrali sono cresciuti da 1,97 milioni del 1995 agli 1,98 milioni del 2000, mentre quelli delle Pa locali sono diminuiti in quegli stessi anni da 1,52 a 1,49 milioni. Nel quinquennio successivo il trend di aumento dei dipendenti pubblici è stato simile tra Pa centrali e locali, aumentando i primi a 2,05 milioni, ed i secondi a 1,52. La lievitazione degli stipendi. Ma allora dove stanno le ragioni dell’esplosione della spesa per i dipendenti? La più importante va ricollegata alla lievitazione degli stipendi. Infatti, mentre nel 1990 l’impiegato di un’amministrazione locale prendeva in media 16.403 euro, nel 2012 il suo stipendio era salito a 36.173 euro, ossia il 120,5 per cento in più rispetto all’andamento dei prezzi (63,1 per cento). Anche gli stipendi dei dipendenti dei ministeri sono cresciuti, ma a un ritmo decisamente minore (+80,4%), sebbene sempre superiore a quello dell’inflazione. Il risultato è che i dipendenti degli enti locali, che un tempo erano i “parenti poveri” dei più facoltosi travet statali, possono oggi permettersi di guardare questi ultimi dall’alto in basso: guadagnano infatti in media 3.300 euro in più di loro (fermi a 32.853 euro all’anno in media). Una situazione rovesciata rispetto a vent’anni fa, quando un dipendente ministeriale prendeva in media (nel 1990) 18.210 euro, 1.800 euro in più rispetto a un dipendente di una Pa locale (16.403). La crescita dei dipendenti. A spiegare poi il divario ancora più ampio tra Stato da una parte, e Regioni, Province e Comuni dall’altro, per quanto riguarda la spesa per il personale, vi è il diverso trend nel numero di dipendenti, che nel periodo 1990-2012 ha visto, nel complesso una riduzione del 10,1% sul fronte dei ministeri, e un incremento dello 0,7% su quello degli enti locali. In definitiva, le cose sembrano piuttosto chiare: gli enti locali, grazie alla loro sempre maggiore autonomia, ufficializzata anche con leggi costituzionali, hanno incrementato in modo abnorme la spesa per il loro funzionamento: non solo per il personale, con aumenti sempre più generosi degli stipendi. Ma anche per l’acquisto di beni e servizi: ciò è stato possibile per l’assenza di regole, tanto che tuttora gli enti locali non sono obbligati a utilizzare le convenzioni della Consip. Che guadagno hanno avuto i cittadini con questo federalismo? Non certo migliori servizi, com’è nell’evidenza di ognuno, ma solo i presupposti per continui incrementi delle tasse, come dimostra infatti la recente, penosa e interminabile vicenda dell’Imu. A destra, il Campidoglio, sede del Comune di Roma. A sinistra, nei grafici, la crescita abnorme della spesa per il personale e per l’acquisto di beni e servizi di tutti gli enti locali nel loro insieme (Fonte: Istat) Nelle tabelle a destra, l’aumento in percentuale, quinquennio per quinquennio negli ultimi vent’anni, della spesa degli enti locali per gli stipendi dei dipendenti e per l’acquisto di beni e servizi
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