Trasparenza nella P.A.: Marco Fioretti indica la strada degli open data

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Nel sistema degli enti pubblici la difficoltà di accedere in maniera trasparente ai dati, rappresenta uno dei punti di forza della politica del malaffare e dell’interesse personale. Per decenni appalti, assunzioni, divisione dei compensi, incarichi sono stati celati dalla segretezza del dato e dalla ritrosia del cittadino verso la cultura del controllo. Oggi queste barriere invisibili sono crollate: attraverso i dati liberi– i cosiddetti open data – ogni cittadino può accedere ad un certo numero di dati pubblici. L’utilizzo di questi dati può avere finalità pubbliche (pensiamo ad esempio al controllo dell’elettore sull’attività dell’eletto) o private (pensiamo all’importanza dei dati sulla logistica e trasporti): il fine comune è sempre quello di uno sviluppo territoriale democratico, votato alla trasparenza. Ma perché i dati liberi spaventano? Perchè questa ritrosia apparente di alcuni enti pubblici alla condivisione del dato? La risposta non è probabilmente univoca. Quella più immediata è la palese evidenza di anomalie in procedimenti pubblici e potenziali conflitti di interesse che vanno ad impattare su una politica del malaffare oramai tristemente diffusa.

Sul valore degli open data abbiamo deciso di ascoltare il punto di vista di Marco Fioretti, esperto nazionale della materia, già membro del Board of Free Knowledge Institute e autore di diversi articoli e studi, sia in Italia che all’estero, sulla condivisione strategica dei dati.

Si parla da molto tempo di open data. Questa terminologia è però troppo spesso limitata solo agli esperti. Come possiamo spiegare in parole semplici il concetto ai lettori di Notia.it?
«Con il termine open data, alla lettera “dati aperti”, si indicano i dati grezzi di qualunque natura dotati, semplificando molto, di tre caratteristiche fondamentali: accesso gratuito tramite internet senza restrizioni, una licenza d’uso che ne consente il riutilizzo per qualsiasi scopo (anche commerciale) ed un formato digitale aperto, cioè non legato ad alcun software specifico. E soprattutto adatto ad analisi ed elaborazione automatica dei dati stessi».

Dunque ogni dato può essere open?
«Non tutti. Per intenderci, il comunissimo pdf (portable document format) non è per niente adatto agli open data, perché è sostanzialmente una fotografia del solo strato visibile e stampabile di un documento. Un bilancio comunale pubblicato online solo come pdf non consente di verificare le formule usate per calcolare i totali o copiare velocemente quei numeri in un altro foglio elettronico, per ricavarne altri grafici».

I dati aperti sono dunque uno strumento di controllo democratico dell’andamento delle “cose pubbliche”. Quali dati a suo giudizio dovrebbero essere open ?
«Secondo un movimento internazionale molto attivo negli ultimi anni in materia, possono rientrare nei dati open tutti quelli grezzi, non sensibili (cioè senza problemi di privacy, segreto militare e simili) prodotti o utilizzati da una pubblica amministrazione per le sue attività. Pensiamo ai bilanci comunali, alle mappe digitali, agli indirizzi di strutture pubbliche. Pensi all’elenco trasparente delle ditte fornitrici di un comune o alla posizione delle discariche abusive. Su questo ultimo tema, ad esempio, è stata organizzata una mappatura libera di tutti gli sversamenti abusivi, per dare continuità all’opera di Michele Liguori, operatore di polizia municipale di Acerra (Na), deceduto proprio per contaminazione nei luoghi su cui effettuata la sua attività di monitoraggio essendo l’unico operatore del settore ambientale in loco».

In una società moderna dunque, trasparente e democratica l’auspicio è per i dati non coperti da privacy completamente open ?
«Va effettuato un distinguo in base alla natura del dato. Chiaramente gli open data che potrebbero venire da un ministero sono molto diversi per tipo e volume da quelli di un piccolo comune, ma in generale ogni P.A., di qualsiasi natura e dimensione, ha dati che dovrebbero diventare open. Con un gruppo di esperti ci stiamo occupando anche di formazione oltre che di informazione presso gli enti pubblici con un progetto interessante denominato “Minimi Comuni Digitali” dove andiamo a formare competenze interne agli enti relativi a Open Street Map (viabilità), corso base GTFS (trasporti pubblici locali), eccetera. Riteniamo sia giunto il momento di supportare la pubblica amministrazione in una svolta improntata sulla trasparenza democratica».

Accanto agli aspetti puramente etici e democratici abbiamo anche opportunità di vantaggio economico per gli enti?
«Sostanzialmente abbiamo due tipologie di benefici: un primo surplus economico, sia in termini di risparmio (se i dati sono online non servono più costose procedure per fornire accesso) che come nuove entrate fiscali, perché i dati diventano materia prima per attività economiche locali private e non. L’altro beneficio fondamentale è quello di aumentare la trasparenza amministrativa, con tutti gli ovvi benefici dal punto di vista della lotta alla corruzione, a infiltrazioni criminali o semplicemente agli sprechi. In particolare, gli open data possono essere un valido strumento per l’individuazione di sprechi, ritardi e conflitti d’interesse negli appalti pubblici di qualsiasi P.A.».

La mente corre subito al fenomeno delle infiltrazioni malavitose negli enti ed alla questione del conflitto di interessi
«Guardi, oggi il marketing e l’arte di vendere spesso sono vero e proprio fumo negli occhi per gli elettori. Pensiamo al famoso streaming. Chi ce l’ha il tempo di controllare su schermo (ammesso che un giudice del lavoro o il Garante della privacy lo tollererebbero) tutto quello che fa un funzionario pubblico nel suo ufficio e riscrivere tutti i numeri che gli ha visto approvare? O di trascrivere, verificare e correlare a mano tutte le informazioni contenute in una infografica? Ammesso che qualcuno voglia e possa perdere tutto quel tempo, quanto serve scoprire che c’è stato un conflitto d’interesse nell’assegnazione di un appalto anni dopo il fatto, quando magari è stato sparso nuovo cemento o una fornitura di materiale scadente a un’ospedale ha già danneggiato tanti pazienti? Si noti che da questo punto di vista non cambia nulla o quasi se chi “verifica” a mano è un cittadino qualunque, senza la benché minima competenza specifica, o il miglior giudice della Corte dei Conti mai esistito. Il fattore comune a tutte le relazioni ufficiali sull’argomento (ndi, vedi dossier su ForumPA) è la difficoltà di eseguire abbastanza controlli in tempo utile, a un costo accettabile, in maniera e con garanzie adeguate, e gli enormi costi per il paese che ne conseguono. È in questo senso che pretendere open data su tutti gli appalti pubblici e i conflitti d’interesse dei membri della P.A., da Parlamento e Palazzo Chigi all’ultimo consiglio circoscrizionale aiuta a combattere quei problemi».

Un luogo comune sugli Open Data ?
«Ogni tanto emerge la considerazione che vuole il cittadino comune incapace di leggere i dati e da qui l’inutilità dei dati liberi. La logica a mio giudizio è del tutto diversa. Certi dati vanno forniti in formato aperto non certo perché ci si illude che tutti i cittadini interessati se li scaricheranno e studieranno personalmente. Vanno invece resi open per permettere di effettuare verifiche e analisi indipendenti a tutti coloro che effettivamente hanno le capacità di farlo. Non solo a quelli che le hanno ma sono già più o meno “cooptati” o influenzati dal sistema che dovrebbero controllare. Da questo punto di vista, se la presenza costante e aggiornata di open data sulle procedure di un comune non cambia certo la storia di un ente, anzi. Illudersi che basti sarebbe pericoloso. Resta tuttavia indiscutibile il valore deterrente, molto più rapido, efficace e infinitamente meno costoso della possibilità che qualche anno dopo la Corte dei Conti chieda chiarimenti».

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