TAR sul caso Alzetta: l’indulto non cancella l’incandidabilità

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Seconda Bis)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 6834 del 2013, proposto da:
A. A., rappresentato e difeso dagli Avv. ti A. Falzone e Giuseppe Libutti, con domicilio eletto presso lo Studio Legale Orlandi Falzone Perillo in Roma, corso Vittorio Emanuele II, 326;

contro

Roma Capitale, in persona del Sindaco p.t., costituitasi in giudizio, rappresentata e difesa dall’Avv. Fiammetta Lorenzetti, domiciliata in Roma, via Tempio di Giove, 21;
Ufficio Centrale Elettorale presso il Tribunale di Roma, n.c.;

nei confronti di

I. B., n.c.;
A.M.P.C. n.c.;

per l’annullamento

dell’atto di proclamazione degli eletti alla carica di consigliere comunale di Roma emanato dall’ufficio centrale elettorale in data 12.06.2013, nella parte in cui dichiara l’incandidabilità del signor A. A. e proclama in sua sostituzione la signora I. B., con conseguente proclamazione dell’elezione del ricorrente a tale carica.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l’art. 130, co. 7, cod. proc. amm.;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 2 ottobre 2013 il dott. Francesco Arzillo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Considerato in fatto e in diritto:

1. Il signor A. A. impugna l’atto di proclamazione degli eletti alla carica di componente dell’Assemblea capitolina di Roma capitale, emanato dall’ufficio centrale elettorale in data 12.06.2013, nella parte in cui esso dichiara l’incandidabilità del medesimo e proclama eletta, in sua sostituzione, la signora I. B..

Il ricorso è volto a ottenere l’annullamento di tale atto e la conseguente proclamazione del ricorrente.

Esso si fonda su tre motivi in diritto così rubricati:

1) violazione e falsa applicazione degli artt. 10 e 12 del D. Lgs. n. 235/2012, e degli artt. 106, 163 e 167 c.p.; eccesso di potere per travisamento dei fatti e/o erronea valutazione dei presupposti;

2) violazione e falsa applicazione degli artt. 10 e 12 del D. Lgs. n. 235/2012, e degli artt. 163 e 166 c.p.;

3) illegittimità costituzionale degli artt. 10, 12 e 13 del D. Lgs. n. 235/2012 per violazione degli artt. 1,2,3, e 51 Cost. nonché per violazione dell’art. 76 Cost..

2. Si è costituita in giudizio Roma capitale, resistendo al ricorso.

3. Il ricorso è stato chiamato per la discussione all’udienza pubblica del 2 ottobre 2013, e quindi trattenuto in decisione.

4. Va anzitutto disattesa l’eccezione di difetto di giurisdizione formulata dalla difesa di Roma Capitale in relazione al fatto che in questa sede si controverte di un diritto soggettivo.

A tal proposito, il Consiglio di Stato ha condivisibilmente affermato che in materia elettorale la giurisdizione del giudice amministrativo sussiste nei casi in cui si faccia questione di interessi legittimi o allorquando le questioni d’ineleggibilità attinenti a diritti soggettivi palesino un nesso di pregiudizialità necessaria rispetto alla decisione della questione principale (Consiglio di Stato, sez. V, 15 luglio 2013, n. 3826), ossia rispetto alla decisione in ordine alla regolarità della procedura elettorale, la quale si conclude con la proclamazione degli eletti censurabile unicamente nella sede giurisdizionale amministrativa, ai sensi degli artt. 129 e 130 c.p.a..

5. Il signor A., nonostante l’utile collocazione nella lista di appartenenza in esito allo scrutinio, non è stato proclamato tra gli eletti all’Assemblea capitolina, in quanto il competente Ufficio Centrale Elettorale ne ha accertato “l’incandidabilità ai sensi degli artt. 10 comma 1 lettera e) e 12 del decreto legislativo 31/12/2012 n. 235, per aver riportato condanna alla pena della reclusione di anni due a seguito della sentenza della Corte di Appello di Roma del 6/6/1996 divenuta irrevocabile 23/07/1996”.

6. Con il primo motivo di ricorso, il medesimo fa presente (in sintesi):

– che la condanna in questione era stata pronunciata con i benefici – mai revocati – della non menzione e della sospensione condizionale della pena;

– che dal combinato disposto degli artt. 163, 167 e 168 c.p. si ricava che ove la sospensione condizionale non sia stata revocata, e nei termini stabiliti il condannato non abbia commesso un delitto o una contravvenzione della stessa indole, il reato è estinto (nella specie, in data 27 luglio 2001);

– che secondo l’art. 106 c.p. gli unici effetti penali che sopravvivono all’estinzione del reato sono quelli relativi alla recidiva e alla dichiarazione di abitualità o di professionalità nel reato;

– che l’articolo 10, comma 1, lettera e) del d. lgs. n. 235/2012, che esclude dalla candidabilità coloro che sono stati condannati con sentenza definitiva a una pena non inferiore a due anni di reclusione per delitto non colposo, non può essere esteso analogicamente al caso di un reato estinto ai sensi delle richiamate norme penalistiche, attesa la tipicità delle eccezioni al diritto di elettorato passivo ex art. 51 Cost.;

– che un’interpretazione analoga a quella prospettata era già stata adottata dall’Amministrazione con riferimento alla previgente previsione dell’art. 58, comma 1, lett. d) del D. Lgs. n. 267/2000, come è dimostrato dal fatto che il signor A. è stato consigliere comunale dall’aprile 2008 al maggio 2013;

– che l’ufficio elettorale, non prendendo in considerazione l’avvenuta sospensione condizionale della pena con le relative conseguenze ordinamentali, è incorso in eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione, nonché travisamento dei fatti.

6.1 Il motivo è infondato.

Va anzitutto premesso che ci si trova in presenza di un’attività amministrativa rigorosamente vincolata non alle soluzioni precedentemente adottate, bensì al solo riscontro della sussistenza dei requisiti di legge, da accertarsi con riferimento al caso di specie.

La disciplina oggi contenuta nell’art. 10, comma 1, lettera e) del D. Lgs. n. 235/2012 sancisce l’incandidabilità a una serie di cariche (tra cui quella di consigliere comunale) di “coloro che sono stati condannati con sentenza definitiva ad una pena non inferiore a due anni di reclusione per delitto non colposo”.

Ad avviso del Collegio, l’interpretazione adottata dall’Amministrazione nella specie non riveste affatto carattere analogico, tale da comportare la violazione della tassatività dei casi di esclusione del diritto di elettorato passivo. Al contrario, essa riflette precisamente la lettera e lo scopo della disposizione in questione:

– la lettera, perché la disposizione si riferisce al fatto storico della pronuncia della sentenza di condanna, che nella specie è fuori discussione (sulla rilevanza, in questa materia, del “solo dato della condanna, quale condizione ostativa all’assunzione o al mantenimento della carica, indipendentemente dalle modalità di irrogazione ed esecuzione della pena”, cfr. T.A.R. Lazio, sez. I, 11 ottobre 2004, n. 10661);

– lo scopo, perché la normativa in questione postula – proprio in applicazione dell’art. 51 Cost. – un’autonoma valutazione, sul piano dell’ordinamento elettorale amministrativo, del disvalore inerente alla condanna penale, a prescindere dalle connesse (anche successive) vicende rilevanti sul piano penalistico o di altri settori dell’ordinamento.

In particolare, la Corte di cassazione ha affermato, proprio con riferimento alle previgenti analoghe previsioni dell’art. 58 del D. Lgs. n. 267/2000, che non assumono rilievo, ai fini del venir meno della causa di incandidabilità, né il fatto che la condanna sia stata sottoposta a sospensione condizionale (che l’art. 166, comma 1 c.p. oggi estende anche alle pene accessorie), né l’avvenuta concessione dell’indulto di cui alla l. 31 luglio 2006 n. 241, poiché l’incandidabilità non è un aspetto del trattamento sanzionatorio penale del reato, ma si traduce nel difetto di un requisito soggettivo per l’elettorato passivo (Cassazione civile, sez. I, 27 maggio 2008, n. 13831). La Suprema Corte ha anche precisato che in questa materia opera la compressione del diritto di elettorato passivo che trova la sua giustificazione nel “venir meno di un requisito soggettivo essenziale per l’accesso alle cariche elettive o per la permanenza dell’eletto nell’organo elettivo”, postulato dalla giurisprudenza costituzionale, prescindendo dal fatto che i comportamenti tenuti non siano più censurati o censurabili, in ragione del buon comportamento successivamente tenuto dal suo autore, ad eccezione del caso in cui sia tempestivamente intervenuta la riabilitazione (Cassazione civile, sez. I, 21 aprile 2004, n. 7593). E non a caso, per quanto riguarda la parallela materia dell’elettorato attivo, l’art. 2, comma 2 del D.P.R. n. 223/1967 dispone espressamente che “la sospensione condizionale della pena non ha effetto ai fini della previsione del diritto di elettorato”.

D’altra parte, il richiamo all’art. 106, comma 1 c.p., lungi dall’infirmare tale ricostruzione, la conferma, proprio perché dimostra che nello stesso ambito dell’ordinamento penalistico la sentenza di condanna esplica alcuni effetti nonostante l’avvenuta estinzione del reato. E’ noto a questo proposito, il dibattito della dottrina penalistica in ordine alla questione della natura giuridica e della qualificazione dogmatica delle cd. “cause di estinzione del reato”, in cui si rinvengono anche alcune tesi volte a ritenere che queste ultime agiscano solamente sul piano degli effetti penali del medesimo. Ai fini che qui interessano basta rilevare che il reato, inteso come fatto storico, permane; e ciò è dimostrato dal fatto che il menzionato art. 106, comma 1 c.p. non va considerato come una norma “esclusiva”: si pensi p.es. all’art. 170 c.p, secondo cui “quando un reato è il presupposto di un altro reato, la causa che lo estingue non si estende all’altro reato”, mentre la “causa estintiva di un reato, che è elemento costitutivo o circostanza aggravante aggravante di un reato complesso, non si estende al reato complesso”.

In ultima analisi, deve quindi considerarsi corretta l’interpretazione secondo cui è irrilevante la sopravvenuta estinzione del reato, ove non sia intervenuta la sentenza di riabilitazione, ai sensi degli articoli 178 e seguenti del codice penale (art. 15, comma 3 del D. Lgs. n. 235/2012): il che consente anche di prescindere dalle questioni sollevate dalla difesa dell’Amministrazione in ordine alla rilevanza, nel caso concreto, di una successiva sentenza del Tribunale di Roma pronunciata nel 2001 relativamente a un fatto commesso nell’anno precedente, con applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 e 445 c.p.p..

Una volta individuata l’esatta natura delle previsioni normative in questione – rettamente interpretate – è quindi possibile disattendere anche i profili di eccesso di potere fatti valere dal ricorrente, dato il palese difetto di interesse a una pronuncia che comporterebbe un riesame il cui esito, sostanzialmente vincolato, non potrebbe comunque essere favorevole al ricorrente medesimo.

7. Con il secondo motivo di ricorso si fa valere la previsione dell’art. 166, comma 2 c.p., secondo cui “la condanna a pena condizionalmente sospesa non può costituire in alcun caso, di per sé sola, motivo […] di impedimento all’accesso a posti di lavoro pubblici o privati tranne i casi specificamente previsti dalla legge […]”, in relazione alla più volte menzionata esigenza di tipicità dei limiti all’elettorato passivo ai sensi dell’art. 51 della Costituzione.

La censura è infondata per una ragione fondamentale: essa presuppone che la nozione di “posti di lavoro pubblici” copra, nella sua ampiezza, anche gli uffici pubblici elettivi. Ma questa interpretazione va disattesa, in quanto questi ultimi sono uffici onorari che non configurano alcun rapporto di lavoro tecnicamente inteso (e come tale oggetto di apposita tutela costituzionale).

8. Con il terzo mezzo di impugnazione, il ricorrente prospetta, in via subordinata, l’illegittimità costituzionale degli artt. 10, 11, 12 e 13 del D. Lgs. n. 235/2012.

In sintesi, il medesimo muove dalla premessa che il diritto di elettorato passivo di cui all’art. 51 Cost. è inviolabile, e come tale limitabile solamente sulla base di criteri di ragionevolezza, necessarietà e stretta proporzionalità rispetto agli obiettivi perseguiti. Egli solleva, in particolare, tre distinti profili di incostituzionalità.

8.1 I primi due profili attengono:

A) alla violazione degli artt. 1, 2, 3 e 51 Cost. da parte dell’art. 10, comma 1, lettera e) del d. lgs. n. 235/2012, in relazione agli artt. 1, comma 1, lett. c) e 4 del medesimo decreto legislativo (che disciplinano i requisiti relativi ai deputati, ai senatori e ai parlamentari europei): in sintesi, il ricorrente ritiene censurabile sul piano costituzionale il fatto che quest’ultima disciplina sia più blanda rispetto a quella concernente gli enti locali sotto il profilo dei reati rilevanti e alle relative pene edittali e irrogate, con irragionevole disparità di trattamento di situazioni ragionevolmente assimilabili;

B) alla violazione delle medesime previsioni costituzionali in relazione al fatto che l’art. 13 del D. Lgs. n. 235/2012 non prevede alcun limite temporale all’incandidabilità per le elezioni negli enti locali, mentre per la carica di deputato, senatore e di parlamentare europeo si prevede la durata corrispondente al doppio della durata della pena accessoria dell’interdizione temporanea dei pubblici uffici comminata dal giudice, e comunque non inferiore a sei anni: anche sotto questo aspetto vi sarebbe quindi una irragionevole disparità di trattamento.

8.2 Le questioni sono manifestamente infondate.

Al riguardo, il Collegio condivide quanto affermato da Consiglio di Stato nell’importante sentenza 6 febbraio 2013, n. 695, che ha ritenuto non sussistere alcun profilo di irragionevolezza collegato alla mancata previsione, quanto alle elezioni regionali, di un limite temporale analogo a quello fissato dall’articolo 13 della normativa in esame con riferimento all’incandidabilità alla carica di deputato, senatore e membro del Parlamento europeo, posto che la diversità delle elezioni e delle cariche non consentono di sindacare l’apprezzamento discrezionale operato dal legislatore nel quadro di una disciplina complessivamente eterogenea, anche sul piano sostanziale, delle fattispecie de quibus. Argomento questo, che è applicabile sia alla questione del limite temporale sia a quella dei relativi presupposti (tipologia delle condanne, pene edittali o irrogate, etc.).

Con riferimento alla questione del limite temporale va anche osservato che la ragionevolezza complessiva della disciplina, in relazione agli invocati parametri di costituzionalità, è assicurata – in ultima analisi – dalla disposizione di chiusura dell’art. 15, comma 3, del D. Lgs. n. 235/2012, che conferisce esclusivo rilievo all’intervenuta riabilitazione in sede penale, rendendo in tal modo possibile evitare che l’esclusione dall’elettorato passivo, derivante dalla condanna definitiva, abbia una durata illimitata e si sottragga ad ogni possibilità di rimozione (cfr. analogamente Corte costituzionale, 15 maggio 2001, n. 132, con riferimento all’art. 15, comma 4-sexies, della legge n. 55 del 1990).

Più in generale, poi, è evidente che in questa sede non si controverte neppure di una forma di radicale disparità di trattamento, ma solamente di una diversa modulazione e graduazione di presupposti e criteri fondamentalmente comuni alle diverse fattispecie.

Parte ricorrente fa anche leva sul peculiare ordinamento di Roma Capitale, la quale non può essere assimilata agli altri enti locali, trattandosi di un ente territoriale che beneficia di una propria disciplina specifica costituzionalmente rilevante (art. 114, comma 4 Cost.). Ma ciò non induce a mutare le menzionate conclusioni, che restano ugualmente valide (e del resto la richiamata sentenza n. 132/2001 della Corte costituzionale atteneva all’ordinamento regionale, che con ogni evidenza non presenta minore rilevanza – sotto il profilo della valenza istituzionale della rappresentanza politica – rispetto a quello di Roma Capitale).

8.3 Da ultimo, parte ricorrente prospetta la violazione dell’art. 76 Cost. sotto il profilo dell’eccesso di delega, in quanto l’art. 1, comma 64 della L. delega (n. 190/2012) stabiliva che il decreto delegato avrebbe dovuto procedere al “riordino e all’armonizzazione della vigente normativa”, operando una completa ricognizione della stessa.

La questione è manifestamente infondata, in quanto il decreto legislativo ha con ogni evidenza provveduto in materia. Per quanto riguarda invece il contenuto di tale riordino, parte ricorrente ripropone in buona sostanza gli stessi profili precedentemente esaminati, che vanno disattesi per le medesime considerazioni esposte al precedente punto 8.2.

9. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.

10. La peculiarità della questione giustifica la compensazione delle spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Bis)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Manda alla Segreteria per le comunicazioni di cui all’art. 130, comma 8 c.p.a..

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 2 ottobre 2013 con l’intervento dei magistrati:

Eduardo Pugliese, Presidente

Raffaello Sestini, Consigliere

Francesco Arzillo, Consigliere, Estensore

L’ESTENSORE
IL PRESIDENTE

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 08/10/2013

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