Il piano del governo per fermare le spese folli delle Regioni

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Nel disegno di legge tagli ai gruppi consigliari e uno stop alle ambasciate «estere» locali
Tifiamo tutti perché le barbatelle di Rauscedo, frazione del comune di San Giorgio della Richinvelda in Provincia di Pordenone, continuino a spopolare fra i viticoltori dell’Azerbaigian. Fatto di cui va giustamente orgogliosa Debora Serracchiani, al punto da averlo dichiarato non più tardi di venerdì anche all’Ansa. Solo non si capisce perché la Regione debba occuparsi delle esportazioni di piante di viti e di altri prodotti, e per questo abbia dovuto organizzare una missione a Baku, capitale di quella Repubblica caucasica. Una missione con tanto di incontro ufficiale fra la governatrice del Friuli-Venezia Giulia e il presidente azerbagiano Ilham Aliyev. Un dubbio, è certo, non condiviso da chi crede invece che il commercio estero con i suoi singolari risvolti diplomatici debba rientrare a pieno titolo fra le competenze regionali.

Qualche caso? Tre mesi fa il governatore del Piemonte Roberto Cota era in Giappone con una delegazione del Ceip: Centro estero per l’internazionalizzazione, testuale. Una organizzazione regionale che ha il compito, udite, di «rafforzare il Made in Piemonte nel mondo». Made in Piemonte? E che dire allora del progetto «Made in Lombardy», finanziato dalla Regione Lombardia tramite la sua Finlombarda? E del Centro estero Umbria, struttura creata nel 2009 dalla Regione per promuovere l’internazionalizzazione delle imprese umbre?

Perché se la mania regionale di farsi ognuna la propria politica estera con tanto di ambasciate e consolati è precedente alla famosa modifica del titolo V della Costituzione, che ha ampliato in modo sconsiderato le competenze delle Regioni, è proprio da allora che la situazione è degenerata. Con un inutile e talvolta indecente spreco di risorse ed energie umane. Riportare fra le competenze esclusive dello Stato il commercio con l’estero, come prevede il disegno di legge costituzionale di Matteo Renzi pubblicato da qualche giorno sul sito del governo, era dunque il minimo sindacale. Speriamo quindi di non vedere mai più Regioni come la Campania spendere 1,4 milioni di dollari l’anno per affittare un lussuoso appartamento a New York dove organizzare conferenze rigorosamente in lingua italiana. Né di dover leggere comunicati stampa tipo quello diffuso un paio d’anni fa dopo una missione a Giacarta del vicepresidente del Consiglio regionale del Lazio Raffaele D’Ambrosio: «Nel corso della visita è stato ricevuto dal sultano di Ternate Muddaffar Sjiah e da altre autorità del luogo. Il vicepresidente ha incontrato anche il maraja Raja Agung e al termine della sua visita è stato ricevuto dal viceambasciatore Mario Alberto Bartoli con il quale si è intrattenuto a colloquio». Speriamo, certo.

Come speriamo di assistere finalmente a un cambio di passo nella promozione turistica, dopo che la stessa riforma renziana del titolo V avrà fatto tornare sotto il cappello unico dello Stato (articolo 117 lettera z) anche la «programmazione strategica del turismo». Perché è un fatto che nel periodo 2009-2011 secondo Confartigianato le Regioni spendevano mediamente 939 milioni l’anno (!) per la promozione e l’Italia scivolava al quinto posto nella graduatoria mondiale per presenze estere, al sesto per fatturato e addirittura al ventiseiesimo per competitività. Un Paese che potrebbe in gran parte vivere di turismo ne ricava, dice il World Travel & Tourism Council, solo il 4,1% del Prodotto interno lordo. E stendiamo un velo pietoso sul Mezzogiorno, che nel 2012 ha incassato in tutto solo 4 dei 32 miliardi arrivati in Italia grazie ai visitatori esteri. Una vergognosa miseria.
Ancora. Se passerà la riforma di Renzi, non solo torneranno di esclusiva competenza statale «l’ordinamento delle professioni intellettuali» e «della comunicazione», la «tutela e la sicurezza del lavoro», l’energia, le grandi reti di trasporto, come pure i «porti e gli aeroporti civili di interesse nazionale e internazionale» (e ci mancherebbe altro…), ma anche «le norme generali sul governo del territorio e l’urbanistica». Il che, per dirne una, potrebbe rimuovere gli ostacoli sorti all’approvazione di una legge per limitare finalmente il consumo del suolo. Secondo Legambiente circa l’8 per cento della superficie italiana, un’area più grande della Toscana, non è più naturale. E grazie a piani regolatori e interventi di pianificazione regionali assurdi la cementificazione ha inferto danni gravissimi al territorio. Con costi economici e umani incalcolabili a causa del dissesto idrogeologico.

Il nuovo articolo 122 della Costituzione decreterebbe poi il divieto di versare contributi pubblici ai gruppi politici dei consigli regionali. Per capirci, questo renderebbe impossibile il ripetersi di casi come quelli di Franco «Batman» Fiorito e di altri scandali che hanno investito gran parte delle Regioni, fra mutande verdi, attrezzi erotici e pasti a base di ostriche e champagne pagati dai contribuenti. Nel solo 2012, dice un’analisi di Roberto Perotti pubblicata da lavoce.info , i gruppi consiliari hanno inghiottito 95,6 milioni di euro, 28 mila euro a consigliere in più rispetto a quanto incassato dai gruppi parlamentari della Camera.

La stessa norma conterrebbe quindi il principio che spetta allo Stato fissare gli stipendi degli organi regionali, mai in ogni caso superiori a quelli dei sindaci dei comuni capoluogo della Regione. Senza però intaccare le prerogative interne del personale dei consigli regionali, che grazie all’autonomia riconosciuta alle Regioni continua a sfuggire a limiti, tetti e regole imposte centralmente. Valga per tutti il caso Sicilia, dove il governatore Rosario Crocetta ha denunciato scandalizzato che lo stipendio del segretario generale dell’Assemblea regionale sarebbe di 600 mila euro l’anno. Per non parlare delle altre spese amministrative che contribuiscono a fare dell’Ars un organo politico più costoso del Senato della Repubblica in rapporto ai suoi onorevoli. Quasi 1,8 milioni per ciascuno di loro. Totale: 160 milioni.
Vero è che la lettera g) dell’articolo 117 della Costituzione nella nuova formulazione affida allo Stato la «disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche». E questo potrebbe aprire qualche spiraglio, non solo per l’uniformità di certi trattamenti ma anche per la riorganizzazione degli apparati, considerando che secondo la Confartigianato nelle Regioni italiane un dipendente su tre sarebbe di troppo. Con esuberi astronomici al Sud: 4.746 in Campania e 6.780 in Sicilia. E costi allucinanti: in Molise i dipendenti regionali pesano per 178 euro su ogni molisano, contro 23 euro in Lombardia.

Ma la modifica dall’impatto potenzialmente più devastante è quella prevista ancora dall’articolo 117, che esplicita come competenza esclusiva statale il «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario». Quanto accaduto in questi anni di pseudoriforme, l’ha spiegato bene dieci giorni fa il presidente della Corte dei conti Raffaele Squitieri in un’audizione parlamentare. Raccontando che se in un ventennio la pressione fiscale è salita dal 38 al 44 per cento, la responsabilità è del balzo delle imposte locali cresciute del 130 per cento, mentre anche le tasse centrali, in barba al decentramento dei poteri sempre più spinto dal 2001, continuavano inesorabilmente ad aumentare. Per non parlare dell’esplosione delle società controllate dagli enti locali, ormai più di 7 mila, che hanno mandato in orbita i costi. E del fatto che i bilanci tutti diversi delle amministrazioni periferiche hanno prodotto un disordine contabile assurdo, vanificando i controlli. La vicenda micidiale degli arretrati nei pagamenti alle imprese ha le sue radici anche in questo caos.

C’è chi forse da Renzi si sarebbe aspettato ancora di più. Il governatore della Campania Stefano Caldoro, per esempio, non si stanca di ripetere che per lui le Regioni andrebbero abolite. E non è certo il solo a pensarla così. Ci sono poi un paio di cosucce in questo progetto di riforma costituzionale, che fra l’altro stabilisce una volta per tutte l’abolizione delle Province, le quali non convincono fino in fondo. Per esempio si ribadisce che la sanità è di competenza regionale: anche se è ormai chiaro che proprio quella è la nota dolente, e forse sarebbe arrivato il momento di riconoscere che la regionalizzazione decisa 35 anni fa non ha funzionato. Come stanno a dimostrare i dati sulla qualità del servizio sanitario, diversissimi da Regione a Regione. Inoltre, il disegno di legge riconosce alle Regioni la «salvaguardia» dell’interesse regionale in tema di formazione professionale. Un autentico buco nero, in particolare al Sud, dove si traduce quasi sempre in un grande business solo per i formatori. In un decennio la Regione siciliana ha speso per la formazione professionale 4 miliardi di euro e il tasso di disoccupazione giovanile in Sicilia è salito al 42 per cento.

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