CHI PAGA IL CONSENSO

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Il «capitalismo pubblico» costa quasi 23 miliardi allo Stato, circa l’1,4% del Pil, un «peso che l’Italia non può piu permettersi». Più che un allarme, quello del CsC di Confindustria è ormai un appello al buon senso: cifre come queste non sono più giustificabili con la retorica dell’interesse pubblico.

Anzi, di più: quei 23 miliardi di euro che lo Stato preleva ogni anno dalle tasse per ripianare i deficit di migliaia di aziende controllate o partecipate da Comuni, Provincie e Regioni sono una vera beffa ai danni del contribuente, costretto a pagare il costo di inefficienze, disservizi e gestioni clientelari protette da una spessa cortina di opacità finanziaria. Concetti ben radicati all’estero come «accountability» (responsabilità di gestione) o come «no taxation without representation» (le tasse vanno giustificate con il dettaglio delle spese), sono del tutto estranei al variegato universo delle aziende locali: lungi dal farsi condizionare dalle lamentele dei cittadini sui prezzi e sulla qualità dei servizi erogati, o dalla volontà del Governo di privatizzare e ridurre la presenza pubblica nelle grandi aziende di Stato, gli amministratori di Regioni, Comuni, Province e Comunità montane non sembrano avere alcune intenzione di mollare la presa nè sulla proprietà nè sulla gestione delle società controllate. Che sono tante, anzi tantissime. Il Csc ne ha contate più di 4.000, ma altri censimenti parlano di quasi 5.500 imprese controllate da enti locali e di oltre 40mila società di servizi partecipate da Regioni, Comuni e Provincie. Insomma, mentre gli enti locali sono pronti a battera cassa con lo Stato per ripianare i deficit o liberarsi dei debiti, nessun Sindaco o amministratore pubblico sembra disponibile ad aprire ai privati la gestione dei servizi, essenziali o meno. Del resto, controllo pubblico significa non solo introiti certi, ma soprattutto consenso.
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