Addio alle Province: se la Regione decide di non decidere

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Ci sono tanti modi per fare a pugni con una riforma. Il primo, il più classico, è quello della battaglia aperta, alimentata dalla polemica politica per negare la legittimità o l’utilità delle nuove regole.

Nel caso della riforma delle Province, però, questo metodo è inservibile. Troppe promesse, troppo entusiasmo da parte di tutta la politica, dal Parlamento ai sindaci, hanno trasformato l’alleggerimento delle Province nella prova del nove sulla capacità stessa del Paese di abbandonare i suoi vecchi vizi.

Un carico simbolico forse sproporzionato rispetto al peso vero della posta in gioco, ma in ogni caso nessuno, ora che si arriva al dunque, può opporsi apertamente alla riforma. Ma in politica quel che non si può combattere si può rinviare: ed è così che molte Regioni hanno deciso di affrontare la patata bollente dell’addio (si fa per dire) alle vecchie Province. Scorrendo l’elenco delle disposizioni varate o discusse finora, si incontra infatti lo snodo cruciale: passare dalle parole ai fatti.
Lo “svuotamento” delle Province architettato dalla riforma Delrio si attua infatti con il trasloco delle funzioni dai vecchi enti di area vasta alle Regioni o ai Comuni, magari mediante associazioni fra i sindaci. Nel nome del federalismo, però, la legge nazionale non ha definito punto per punto quale attività provinciale deve “risalire” la scala dei livelli di governo per arrivare in Regione e quale, invece, deve percorrere la strada inversa ed essere assegnata ai Comuni. Queste scelte toccano alle Regioni, che in questi mesi avrebbero dovuto ridisegnare la geografia delle funzioni sul proprio territorio.

Il tempo stringe: entro il 31 marzo le Province, proprio sulla base delle competenze che perdono, dovrebbero scrivere l’elenco delle “eccedenze”, cioè del personale che deve cambiare casacca perché impegnato in attività non più svolte dall’ente di appartenenza. Non è una partita piccola, perché la legge di stabilità (quella che taglia un miliardo di euro quest’anno, due nel 2016 e tre dal 2017) chiede alle Province di dimezzare il proprio organico e alle Città metropolitane di tagliarlo del 30 per cento. Spesso però la premessa, cioè la nuova distribuzione delle funzioni ex provinciali, è ancora nella nebbia, perché le Regioni hanno deciso di non decidere.
La nobile arte italiana del rinvio si può praticare in molti modi, e ancora una volta la strada più praticata è quella più nascosta. Per capirlo basta un rapido tour fra le Regioni a Statuto ordinario, quelle più direttamente coinvolte nella riforma. Solo in pochi casi, per esempio Emilia Romagna e Calabria, manca del tutto la legge attuativa della riforma, e il ritardo si può spiegare anche con il fatto che in queste Regioni si sono appena svolte le elezioni (disertate dalla maggioranza dei cittadini) e i tempi regionali per formare le Giunte e ripartire dopo il voto non sono propriamente fulminei.

Negli altri casi, la situazione è diversa. Almeno in Giunta, un progetto di legge è stato approvato, ma quando arriva al nodo cruciale del trasferimento delle funzioni rimanda la palla ad altre leggi e regolamenti. Risultato: i progetti degli esecutivi regionali devono spesso ancora affrontare la prova del consiglio, dove il tema della gestione degli enti locali è perfetto per accendere affascinanti (e soprattutto lunghi) dibattiti tra i partiti, ma anche dopo questo passaggio, quando la legge sarà approvata e pubblicata sul bollettino ufficiale della Regione, bisognerà ricominciare da capo, per scrivere la legge regionale attuativa dell’altra legge regionale attuativa della riforma Delrio. A Penelope con i Proci questa tattica è servita: resta da capire quale Ulisse potrà salvare le Regioni.

Nell’attesa, si può dare un’occhiata a qualche esempio di questa infinita tela normativa, come quello preparato dal Veneto. Il disegno di legge proposto dalla Giunta si limita ad assegnare alla Provincia di Belluno nuove funzioni in materia di «territori montani», da esercitarsi a Cortina e dintorni, e per il resto rinvia la redistribuzione delle competenze regionali a leggi successive. Solo più tardi, sulla base di queste norme ulteriori, si potranno ricollocare le risorse, perché le esigenze dipendono com’è ovvio dall’assegnazione dei diversi compiti. Alla fine, sarà la Giunta regionale a ricollocare anche il personale. Quando? Impossibile saperlo, perché il disegno di legge fissa un termine (un anno) per la presentazione dei provvedimenti attuativi, ma non per la loro approvazione.

Simile la situazione nel Lazio, dove il Ddl elaborato dalla Giunta fa qualche passo in più, sopprimendo le funzioni provinciali sullo sport e fissando un calendario più stretto per la definizione di tutto il resto: entro un mese dall’approvazione della legge, la Giunta dovrebbe presentare «uno o più schemi di regolamento» per ridefinire le funzioni, nei 30 giorni successivi i Comuni (singoli o associati) dovrebbero scegliere le competenze nel menu preparato con questi schemi e nei 60 giorni successivi la Regione dovrebbe approvare i regolamenti, sentite le commissioni regionali e i consigli delle autonomie locali. Programma ambizioso, che però deve ancora partire (il Ddl regionale deve essere esaminato dal consiglio) e che rischia di scontrarsi con il fatto che le competenze vanno redistribuite con leggi e non con regolamenti.

La Lombardia riporta in Regione agricoltura, foreste, caccia e pesca, e per il resto rimanda a leggi successive; l’Abruzzo rinvia tutto a nuovi provvedimenti, senza fissare scadenze, le Marche “promettono” di accentrare in Regione turismo, cultura, sport, trasporto pubblico e strade, ma lo faranno con delibere ulteriori e così via. Tra le eccezioni la Toscana, che ridisegna l’assetto delle funzioni portando in Regione anche tutte le materie ambientali (un passo oltre la stessa riforma Delrio) e assegnando ai Comuni turismo, sport e tenuta degli albi del terzo settore.
Il panorama delle proroghe, animato anche da qualche revanche di “neocentralismo regionale”, preoccupa parecchio gli amministratori locali, che pochi giorni fa hanno lanciato l’allarme sul fatto che le Regioni “non hanno colto lo spirito della riforma”. A spingere i rimpalli fra livelli di governo è però soprattutto un problema di risorse. Dopo l’ennesima manovra con l’accetta sui bilanci locali, domina la paura di dover gestire costi aggiuntivi senza avere nuovi fondi: così in sospeso rimangono i dipendenti provinciali, che aspettano di conoscere la loro collocazione futura, e i cittadini, che continuano a chiedersi che ne sarà della tanto evocata “abolizione delle Province ”.

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